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QUESITO N. 458: Quale tutela per l’agente immobiliare in caso di rifiuto a stipulare del coniuge (in comunione legale) di uno dei comproprietari dell’immobile oggetto dell’incarico di vendita.
Quesito n. 458: Quale tutela per l’agente immobiliare in caso di rifiuto a stipulare del coniuge (in comunione legale) di uno dei comproprietari dell’immobile oggetto dell’incarico di vendita. Se l’obbligo di risarcimento del danno grava su tutti i comproprietari in solido o sul singolo comproprietario dissenziente. Se è possibile procedere ugualmente alla vendita del bene immobile.


Il quesito in esame offre l’occasione di analizzare, e relazionare, tre differenti istituti giuridici: la comunione legale dei coniugi (art. 177-197 c.c.), la comunione in generale (art. 1100-1116 c.c.) ed il risarcimento del danno per responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.).

La comunione in generale
In primis, nell’ottica di un giusto ed ortodosso approccio alla vicenda de qua, assume centrale rilevanza la contitolarità di più soggetti nel diritto di proprietà sull’immobile da alienare.
Sul tema è opportuno rilevare, prima facie, che l’art. 1108 del c.c. recita: “Con deliberazione della maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa comune, si possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il godimento, purché esse non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa. Nello stesso modo si possono compiere gli altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, sempre che non risultino pregiudizievoli all’interesse di alcuno dei partecipanti. È necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove anni”.
Tale norma, dunque, assoggetta all’approvazione dell’unanimità dei comunisti l’alienazione dell’immobile in comproprietà tra i comunisti.
Tuttavia l’art. 1103 1° del c.c. dispone che “Ciascun partecipante può disporre del suo diritto e cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota”.
Quindi, in ossequio alla norma innanzi citata, in caso di beni indivisi ogni comproprietario può liberamente, senza alcun condizionamento da parte degli altri comproprietari, vendere la propria quota, senza che gli altri comproprietari abbiano diritto di opporsi, e pertanto se in un contratto di vendita è indicato che il bene appartiene a più persone e solo alcune di esse lo sottoscrivono, non può negarsi a priori la validità della vendita delle singole quote.
Infatti la dottrina prevalente, avallata dalla giurisprudenza, ha avuto modo di precisare che nell’ipotesi di vendita di un’immobile indiviso predisposta perché ad essa partecipino tutti i comproprietari e che sia poi stipulata da alcuni soltanto di essi, il contratto deve ritenersi incompleto e soggetto ad inefficacia relativa che può essere fatta valere soltanto dal compratore, il quale, in quanto esclusivo titolare dell’interesse all’acquisto del bene per intero, può anche chiedere l’esecuzione del contratto in relazione alla quota del comproprietario/i intervenuto validamente nel negozio, senza che questo possa opporvisi, salvo che dall’interpretazione della convenzione risulti che la stessa sia stata sottoscritta dalle parti nel comune presupposto (o condizione tacita) dell’adesione successiva degli altri contitolari del bene, cioè che il negozio sia stato predisposto come vendita unitaria, non occorrendo una specifica clausola redatta in tal senso. (cfr. Cassazione civile, sez. II, 18/09/1991, n. 9749).
In definitiva, sintetizzando e semplificando nella massima misura possibile i termini della quaestio, rilevanza dominante ha l’interpretazione che le parti (o il Giudicante) facciano dell’alienazione dell’immobile: vendita unitaria, con conseguente necessità del consenso di tutti i comproprietari ex art. 1108 c.c., o vendita pro quota, effettuabile relativamente ad uno o più quote ideali dell’immobile indiviso ex art. 1103 c.c. (sul tema Cassazione civile, sez. un., 08/07/1993, n. 7481).
A ciò si aggiunga il dettato dell’art. 1111 c.c., a norma del quale “Ciascuno dei partecipanti può sempre domandare lo scioglimento della comunione; l'autorità giudiziaria può stabilire una congrua dilazione, in ogni caso non superiore a cinque anni, se l'immediato scioglimento può pregiudicare gli interessi degli altri. Il patto di rimanere in comunione per un tempo non maggiore di dieci anni è valido e ha effetto anche per gli aventi causa dai partecipanti. Se è stato stipulato per un termine maggiore, questo si riduce a dieci anni. Se gravi circostanze lo richiedono, l'autorità giudiziaria può ordinare lo scioglimento della comunione prima del tempo convenuto.”
Fatta salva la possibilità di addivenire allo scioglimento consensuale della comunione, viene quindi espressamente attribuito, a ciascuno dei comproprietari, il diritto potestativo di chiedere lo scioglimento (giudiziale) della stessa. Tale diritto trova limite nel successivo articolo 1112 del c.c., il quale dispone che “Lo scioglimento della comunione non può essere chiesto quando si tratta di cose che, se divise, cesserebbero di servire all’uso a cui sono destinate”.
Quanto al procedimento di scioglimento della comunione, questo è disciplinato dagli art. 784 - 791 c.p.c., nonché, in virtù dell’espresso rinvio operato dall’art. 1116 c.c., dalle norme sulla divisione ereditaria (713 – 736 c.c.) ove compatibili. In particolare, qualora l’immobile non sia agevolmente divisibile, troverà applicazione l’art. 720 c.c., a norma del quale l’immobile andrà preferibilmente assegnato al comproprietario/i che ne chieda l’assegnazione (di regola il ...

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