Il contratto di mediazione: Giurisprudenza e dubbi applicativi.-
Il contratto di mediazione: Giurisprudenza e dubbi applicativi
1. Premessa. - Le sentenze in materia di mediazione rispecchiano, ciascuna nel proprio ambito, le peculiarità e le problematiche connesse all'istituto della mediazione , offrendo all'interprete interessanti spunti ricostruttivi e, nel contempo, ampi spazi di perplessità.
Una linea sottilissima di continuità, negli ultimi anni, ha caratterizzato l'orientamento giurisprudenziale in tema di mediazione, la qual cosa, tuttavia, lungi dall'offrire solide e, soprattutto, sicure basi sotto il profilo applicativo, sembra, per contro, sovente, legittimare soluzioni alquanto particolari.
Non si creda, peraltro, che l'osservazione voglia rappresentare «rimprovero» o «critica» alla giurisprudenza, la quale, in effetti, proprio in tema di mediazione , ha recepito ed utilizzato, per risolvere problemi concreti, l'ampio travaglio dottrinale sul tema.
Se, invero, dal profilo operativo si passa alla ricostruzione sistematica e si volge lo sguardo al dibattito dottrinale sul tema, ci si avvede della singolarità della mediazione: ogni elemento di tale istituto ha dato luogo ad interpretazioni nettamente discordanti sotto il profilo dogmatico, a cominciare dalla stessa possibilità di concepire la mediazione quale contratto, interpretazioni che, con il tempo, si sono variamente combinate e fuse tra loro, di modo che, ciò che in astratto appare assolutamente inconciliabile, proprio nella mediazione ha trovato un punto di coesione e compromesso.
Si possono individuare, per il loro tramite, i punti salienti delle problematiche relative alla mediazione, concernenti la qualificazione ed i caratteri costitutivi della fattispecie, che vanno dalla natura e perfezionamento della stessa, individuazione della prestazione e controprestazione, forme, responsabilità e legittimazione.
Naturalmente, sia pure nell'ambito delle peculiarità segnalate, i singoli punti si condizionano tra loro, e, pur tuttavia, si osserverà come non necessariamente l'accoglimento di una prospettazione trae seco, quale corollario necessitato, date conseguenze.
2. La natura della mediazione . - Il dibattito sorto intorno alla natura giuridica della mediazione appare sintomatico delle caratteristiche peculiari di detta fattispecie.
Giova, a tal fine, ricordare come, sotto il vigore del codice di commercio del 1882, non traspariva alcun elemento idoneo ad orientare l'interprete sul punto, essendo la mediazione semplicemente ricompresa tra gli atti di commercio ex art. 3, n. 22.
Nonostante la genericità del riferimento, la dottrina nettamente dominante non ebbe particolari difficoltà ad affermarne la natura contrattuale. Ciò, come si verrà osservando, non consentì univoci risultati circa gli ulteriori profili ricostruttivi ed operativi, ma, per lo meno, rappresentò un'univoca base di partenza.
Il codice civile del 1942 disciplina la mediazione nel titolo dedicato ai singoli contratti, e, pur tuttavia, proprio la natura contrattuale della mediazione viene apertamente, ancorché non decisamente, posta in discussione.
A tutt'oggi permangono, invero, orientamenti che, probabilmente con maggior coerenza, la natura contrattuale affermano in via esclusiva, ma è dato riscontrare impostazioni che quella natura negano in assoluto. Tuttavia la più nota e più seguita delle ricostruzioni sul punto, che, come emerge soprattutto dalla motivazione della prima delle sentenze in commento, ha avuto largo seguito anche presso la giurisprudenza, ha ipotizzato un'ambivalenza ontologica della mediazione , acontrattuale nella configurazione tipica emergente dagli art. 1754 ss. c.c., contrattuale in una possibile variante atipica.
Il successo di tale ultima impostazione è, almeno in parte, dovuto alle perplessità che le c.d. teorie contrattualiste hanno suscitato. Ed invero tra coloro che pur sostengono la natura contrattuale della mediazione non è dato rinvenire univocità di vedute circa il numero di contratti necessari a dar vita al rapporto mediatizio: uno, secondo alcuni, ma resta allora in dubbio tra quali soggetti intercorra; due, secondo altri, intercorrenti rispettivamente tra mediatore e ciascuno dei soggetti intermediati.
Le incertezze sotto il profilo della costruzione strutturale del rapporto, peraltro, non rappresentano il dato più singolare, il quale, per contro, è rappresentato dal fatto che, sotto il profilo contenutistico-effettuale, la dottrina maggioritaria, se non proprio prevalente, seguita fedelmente da giurisprudenza pressoché costante, ha fermamente negato che dalla mediazione discenda un vincolo atto ad assumere la fisionomia dell'obbligazione.
Appare evidente che un contratto non vincolante rappresenta un'ipotesi difficilmente configurabile nel nostro ordinamento, e soprattutto, se non solo, tale prospettazione ha favorito, come osservato, quelle teorie che, sia pure in maniera non esclusiva, dalla natura contrattuale della mediazione si sono affrancate.
Non si creda, tuttavia, che negata la natura contrattuale, almeno nella sua configurazione tipica, alla mediazione , dal punto di vista costruttivo sia dato rinvenire una certa omogeneità di vedute.
Anche l'orientamento, per così dire, non contrattuale della mediazione , si mostra alquanto variegato al proprio interno. Se isolata è rimasta la tesi che sembrerebbe concepire la mediazione in termini di fatto, un certo seguito ha riscosso l'idea di far rientrare la mediazione nell'ambito dei c.d. «rapporti contrattuali di fatto».
Tale ricostruzione, tuttavia, non sembra reggere al confronto con la normativa dettata dalla l. n. 39 del 1989, la quale detta specifici requisiti formali e di legittimazione che mal si attagliano ad una situazione di fatto.
L'intera costruzione relativa ai rapporti contrattuali di fatto, del resto, manifesta forti ambiguità, insite nel concetto stesso di contatto sociale. Dal contatto sociale, si è osservato, possono eventualmente scaturire quella serie di c.d. «obblighi di protezione», in relazione ai quali il ricorso al contratto, ancorché di fatto, rappresenta un tipico «caso di eccedenza del mezzo rispetto al fine».
Senza, per altro, entrare nel merito delle perplessità che i rapporti contrattuali di fatto hanno suscitato, se da intendersi quale categoria generale, può tuttavia riconoscersi alla relativa dottrina il merito - ma che si tratti di un traguardo il raggiungimento del quale sia ad essa in esclusiva attribuibile ci sembra dubbio - di aver superato la rigida correlazione tra contratto e scambio di proposta ed accettazione. Nella costruzione lata del concetto di «contratto di fatto» - atta a ricomprendere, per quanto qui interessa, i rapporti derivanti da contatto sociale, genericamente inteso, o quelli generati dal traffico di massa - dal fatto, così come di volta in volta delimitato, non sembra affatto nascere un rapporto senza contratto, bensì, ed eventualmente, un contratto senza formale scambio di proposta ed accettazione. Parlare di contratto di fatto, in tali evenienze, offre della fattispecie un'immagine quanto mai «suggestiva», ma non consente di dare soluzione adeguata alle problematiche che certamente, già da un punto di vista strutturale, la mediazione pone: si vengono a spostare i termini del problema senza, per altro, risolverlo.
Pur con tutte le riserve che i rapporti contrattuali di fatto suscitano, un dato può dirsi acquisito: dal c.d. «contatto sociale» scaturisce un vero e proprio rapporto contrattuale, soggetto alla medesima disciplina cui sottostanno tutti i rapporti contrattuali.
Il riconoscimento del sorgere di un rapporto giuridico dal fatto mediazione , se, per un verso si mostra in netta contraddizione con le esigenze che a detta ricostruzione avevano condotto - non essere la mediazione fonte di obbligazioni - sotto altro profilo rappresenta decisivo argomento contrario all'ulteriore, e particolarmente seguita, impostazione seguita dagli «acontrattualisti»: quella che riconduce la mediazione all'atto giuridico in senso stretto.
Non si può certamente, in questa sede, entrare nel merito delle profonde difficoltà che hanno accompagnato i vari tentativi della dottrina di porre una chiara linea di demarcazione tra atto e negozio, e, tuttavia, consolidata appare la conclusione per cui il negozio, a differenza dell'atto, rappresenta la fonte del rapporto, racchiudendone l'essenza programmatica.
In tal senso può, probabilmente, intendersi la tradizionale impostazione secondo la quale solo nel negozio la volontà si dirige anche agli effetti: nel negozio la produzione di effetti - che pur sempre rinviene la propria fonte nell'ordinamento, ché, altrimenti, non sarebbero giuridici - viene dall'ordinamento stesso parametrata al programma divisato dalla e/o dalle parti.
Dalla programmazione effettuata deriva quel vincolo, o impegnatività che dir si voglia, che si proietta nel futuro, e che vale a distinguere il negozio dall'atto, anche in quella particolare configurazione dell'atto che esplica un elemento interiore, che più di ogni altro sembra avvicinarsi, se non proprio confondersi, con il negozio.
Nella mediazione , invero, è pur sempre necessario che il mediatore abbia svolto un'attività e che «di questa attività si siano valsi i due contraenti», di modo che tale contrapposta posizione non può essere sottovalutata. Oltretutto, dal combinarsi di dette circostanze sorge un rapporto, i cui contenuti concreti possono ben essere determinati, con certe modalità piuttosto che con altre, dalle parti.
In tal senso si delinea puntualmente il ruolo che in quest'ambito svolge la concorde volontà delle parti.
Tale rapporto presenta il carattere della vincolatività proprio del negozio, non fosse altro per la circostanza che, pur volendosi ritenere libera l'attività del mediatore, liberi non sono i soggetti dallo stesso intermediati nel pagare o meno la provvigione, se l'affare viene concluso.
Né, sotto questo ulteriore punto di vista, pare convincente l'assunto per il quale l'obbligo di pagare la provvigione non sorgerebbe da contratto ma ex lege, poiché agevole è obiettare che le obbligazioni corrispettive dei contraenti sono previste dalla legge in tutte le ipotesi di contratto legalmente tipico.
Nell'ipotesi della mediazione dovrebbe poi riconoscersi un tipo veramente particolare di obbligazione ex lege, l' an ed il quantum della quale dipendono in primo luogo da un accordo delle parti secondo quanto emerge dall'art. 1755 c.c. Da ciò deriverebbe, conseguentemente, un tipo altrettanto particolare di atto giuridico in senso stretto, l'effetto più appariscente del quale - il pagamento della provvigione - si determina in primo luogo in forza di patto, ed a carico di chi l'atto stesso non ha posto in essere.
Le maggiori perplessità, comunque, dipendono dalla constatazione che proprio da parte di coloro grazie alla cui elaborazione la tesi della natura non negoziale della mediazione ha acquistato maggiore fortuna, si riconosce la possibilità di una variante contrattuale della mediazione stessa.
Si aggiunge, in tal modo, alle problematiche che la tesi non negoziale presenta, ed a quelle nelle quali pure si è imbattuta la dottrina che la via contrattuale percorre in esclusiva, l'ulteriore, ed a nostro avviso insolubile, difficoltà di spiegare la giuridica ammissibilità di far sorgere per contratto ciò che il semplice atto giuridico è già idoneo a produrre.
La necessità di contemperare, o per lo meno far convivere, contrattualità e acontrattualità della mediazione , evidenzia il punto debole dell'intera impostazione, in quanto, nella valutazione degli interessi che contribuisce a determinare struttura e natura giuridica della fattispecie, non è dato rinvenire la giuridica utilità, e correlativa ammissibilità, di utilizzare lo strumento contrattuale per il raggiungimento di un risultato e la produzione di effetti che di tale strumento non necessitano punto.
Se dunque, si riconosce, come la dottrina pressoché unanime al giorno d'oggi riconosce, che in presenza del conferimento di un incarico al mediatore si ha un contratto di mediazione , se tipica o atipica poco importa, la mancanza dell'incarico espressamente conferito al mediatore ben può significare che esso incarico non è necessario, ma ciò non perché la mediazione può sorgere senza contratto, bensì perché il contratto può perfezionarsi senza quell'esplicito incarico espresso.
Diversamente, unica conclusione coerente dovrebbe essere che, presente o no l'incarico, la mediazione permane nella sua fisionomia di atto non negoziale, ma si tratta di una conclusione alla quale, stante anche la disciplina introdotta con la legislazione speciale, non pare che alcuno si senta più di pervenire.
Non è un caso, d'altra parte, che tutta la giurisprudenza, ivi compresa quella che in qualche modo afferma la natura non negoziale della mediazione , ritiene indefettibile tanto la riconoscibilità dell'attività del mediatore quanto l'accettazione di tale attività da parte dei soggetti intermediati.
La verifica, pertanto, più proficuamente dovrebbe svolgersi sulle modalità tramite le quali il primo degli elementi essenziali del contratto, cioè la manifestazione della volontà, si forma, non dimenticandosi che, già sulla base della disciplina dell'accordo delle parti ex art. 1326 ss. c.c., tale accordo non necessariamente si forma attraverso un formale scambio di espresse dichiarazioni di volontà.
Alquanto significativa sembra, pertanto, l'osservazione in base alla quale «accertare se un contratto si è formato - e dunque anche se un contratto esiste - non implica la ricognizione dell'effettivo accadimento di fenomeni (psichici), ma solo il controllo della coincidenza tra determinati comportamenti umani ed un astratto modello legale predisposto per la loro qualificazione».
3. L'attività del mediatore. - Come si è già rilevato, uno dei punti deboli della tesi che riconosce natura contrattuale alla mediazione , consiste proprio nel fatto di aver negato che dal contratto di mediazione sorga un obbligo, in capo al mediatore, di porre in essere la propria attività, la quale, pertanto, non potrebbe essere considerata prestazione in senso tecnico.
Tanto scontata appare, ormai, tale affermazione, che essa viene tralatiziamente riferita come criterio argomentativo, e non già come punto necessitante di dimostrazione.
Si ripete qui, alquanto stancamente, che l'assenza dell'obbligo, in capo al mediatore, di porre in essere la propria attività, rappresenta il carattere differenziale della mediazione dal mandato, in quanto «mentre la mediazione non obbliga il mediatore a compiere attività di collaborazione [...] il mandato impegna, invece, il mandatario a compiere atti giuridici». Ecco, allora, che l'attività del mediatore dovrebbe considerarsi libera, potestativa, onere o, ancora, evento dedotto in condizione.
Una precisazione è, a questo punto, indispensabile: il contenuto dell'ipotetica prestazione del mediatore non concerne la conclusione dell'affare, bensì ed esclusivamente, la messa in relazione delle parti, dato questo che, ad onta delle contrarie opinioni espresse in dottrina, inequivocabilmente emerge dall'art. 1754 c.c.
Qui il dubbio sorge spontaneo: «perché il mediatore non sarebbe obbligato?».
La risposta, riassumendo le varie articolazioni offerte dalla dottrina, è stata posta in questi termini: il mediatore si attiva per far concludere l'affare; tale conclusione è l'evento cui è condizionato il pagamento della provvigione; il mediatore non è obbligato al comportamento ma, se non lo pone in essere, non avrà diritto alla provvigione.
L'argomento non è convincente poiché, se non può certo contestarsi che, ex art. 1755 c.c., il pagamento della provvigione sia subordinato all'intervenuta conclusione dell'affare intermediato, ciò dovrebbe condurre, se mai, a ritenere libere da obbligazioni attualmente esigibili le parti dell'affare intermediato, dalla volontà delle quali quella conclusione dipende, e, con essa, l'obbligo del pagamento della provvigione. Il nesso che lega il pagamento della provvigione alla conclusione dell'affare non mostra, per contro, di avere alcuna interferenza con il comportamento che il mediatore, anteriormente a detta conclusione, deve porre in essere.
In relazione, poi, all'attività di messa in relazione, il ricorso alla tesi della condizione non è assolutamente giustificabile. La prestazione del mediatore, attività di messa in relazione, non può essere evento dedotto in condizione, per l'incompatibilità ontologica che, in linea generale, deve riconoscersi tra il fenomeno condizionale e la programmazione dell'attuazione dell'assetto di interessi: l'attuazione dell'assetto di interessi dedotto nel contratto non può rappresentare essa medesima l'evento condizionante.
Tutto ciò induce mantenere l'attività del mediatore in obligatione.
4. Libertà di recesso e irresponsabilità delle parti. - La serietà delle conseguenze direttamente connesse al comune modo di argomentare, il quale, peraltro, rappresenta singolare punto di contatto dei contrattualisti e degli acontrattualisti, emerge in maniera evidente dalla prima delle sentenze in commento, ove il profilo affrontato può considerarsi relativa...
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