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La mediazione e la provvigione del mediatore.-

La mediazione e la provvigione del mediatore


Sommario: 1) Per aversi mediazione non è necessario un incarico: basta non rifiutare l’attività del mediatore da cui deriva la conclusione dell’affare. 2) Il nesso di causalità tra la conclusione dell’affare e l’attività del mediatore. 3) L’interruzione del nesso di causalità: a) le trattative interrotte e poi riprese; b) la differenza di prezzo; c) la segnalazione dell’affare; d) la sub-mediazione; e) la consapevolezza dell’opera di mediazione; f) l’identità dell’affare: il leasing finanziario; g) la vendita dell’immobile attuata tramite cessione delle quote sociali. 4) Il preliminare di preliminare, la puntuazione (o minuta), il contratto di opzione e la conclusione dell’affare.

1. Per aversi mediazione non è necessario un incarico: basta non rifiutare l’attività del mediatore da cui deriva la conclusione dell’affare
Nonostante il suo inserimento nel titolo dedicato ai singoli contratti, la mediazione sarebbe, secondo alcuni, una fattispecie non contrattuale, giacché il rapporto di mediazione è il prodotto della messa in relazione di soggetti per opera del mediatore, a prescindere da un eventuale accordo intercorso tra essi, per cui l’attività del mediatore risulta libera e volontaria.-
Secondo tale interpretazione è perciò sufficiente che vi sia la mera attività non negoziale, corredata dai caratteri tipici individuati dalla legge, affinché si producano gli effetti della mediazione, per cui non è necessaria la manifestazione di un intento negoziale che pur può verificarsi.
In altri termini, secondo la tesi acontrattualistica della mediazione, tra l’opera del mediatore e la conclusione dell’affare è necessario che vi sia un nesso di causalità, indipendentemente dal fatto che entrambe le parti abbiano inteso valersi dell’opera del mediatore, a nulla rilevando la consapevolezza, o no, in capo alle parti di servirsi della collaborazione del terzo.-
Per i contrattualisti, invece, non potrà mai esservi mediazione qualora gli interessati non siano stati messi nella condizione di conoscere l’attività del mediatore e, quindi, di valutare l’opportunità, in termini di efficienza economica, di avvalersi del suo operato.-
Nondimeno, anche l’idea della mediazione di natura non negoziale ammette l’eventualità che, nella pratica, si possa configurare un modello contrattuale: in altre parole, la mediazione può anche nascere da un incarico, ma non necessariamente ne presuppone l’esistenza.-
La più recente giurisprudenza pare invero attestarsi su tali posizioni: si sostiene cioè la natura ambivalente della mediazione, nella sua duplice configurazione, tipica e atipica.-
Si ammette cioè che, in base al principio dell’autonomia negoziale, accanto alla mediazione ordinaria o tipica, prevista dall’art. 1754 c.c., le parti possano dar luogo a una mediazione negoziale definita «atipica», fondata su un contratto a prestazioni corrispettive, la quale ricorre quando tutte o anche soltanto una delle parti interessate, volendo concludere un affare, incaricano altri di svolgere un’attività finalizzata alla ricerca di un soggetto disponibile alla conclusione del medesimo affare, a condizioni predeterminate.
La mediazione atipica è qualificabile come contratto misto nel quale, a fianco degli elementi della mediazione, si collocano elementi tipici del mandato; anzi, per la Cassazione gli artt. 1756 e 1761 c.c. legittimano la possibile conformazione di un vero e proprio rapporto di mandato ex art. 1703 c.c..
Quanto alla mediazione ordinaria (o tipica), si afferma in ogni caso che, in base all’art. 1754 c.c.:
a) essa prescinde da un sottostante obbligo a carico del mediatore stesso di attivarsi per la conclusione dell’affare, in quanto viene svolta in difetto di un apposito titolo giuridico, atteso che per aversi mediazione non è necessario un incarico;
b) la «messa in relazione» delle parti ai fini della conclusione di un affare è perciò qualificabile come attività giuridica in senso stretto;
c) tale attività viene individuata come fonte del rapporto obbligatorio in base all’ultima parte dell’art. 1173 c.c.: l’obbligazione deriverebbe cioè da attività riconducibile alla locuzione «ogni altro fatto idoneo» a produrla in conformità dell’ordinamento giuridico.
Si ritengono rapporti di tipo contrattuale quelli tutelati dalla responsabilità sancita dagli artt. 1218 ss. c.c. e più comunemente tutti quei rapporti patrimoniali che non sorgono da fatto illecito, bensì dalle altre fonti indicate nell’art. 1173 c.c.: si parla così di «rapporti contrattuali di fatto» quando un rapporto nasce da una fattispecie legale diversa dal contratto, vale a dire da un fatto.
Questa condicio facti è conosciuta con il nome di «contatto sociale»: ciò avviene allorché, secondo la previsione legale, i rapporti sono di matrice contrattuale, ma nella realtà effettiva essi si formano senza alcuna base negoziale.
L’ipotesi è quella di una parte che esegue una prestazione a favore di un destinatario con cui entra in contatto, senza esserne obbligata: ciò che differenzia questa fattispecie da quella contenuta nell’art. 1327 c.c. è, appunto, la mancanza di una espressa proposta.
Se un rapporto sociale di mero fatto coinvolge un interesse di particolare valore, che non trova adeguata tutela nell’ambito della responsabilità extracontrattuale e comporta un’obbligazione atipica di protezione a carico del soggetto che rispetto ad esso assume in concreto una funzione di garanzia e di controllo, si parla allora di «contatto sociale qualificato», ossia di un rapporto reale tra due soggetti - non legati da un contratto già stipulato – in forza del quale uno di essi è tenuto all’esecuzione, in favore dell’altro, di prestazioni proprie di una relazione di tipo contrattuale.
Il rapporto sarebbe quindi di tipo obbligatorio ma privo di un obbligo primario di prestazione: il soggetto non è obbligato ad effettuare la prestazione, ma se la inizia volontariamente risponde, in caso di relative patologie, ai sensi dell’art. 1218 c.c. e non a titolo extracontrattuale.
Oggetto del rapporto obbligatorio è, quindi, la corretta esecuzione della prestazione inizialmente non dovuta, e l’obbligo deriva dal generale dovere di rispetto dell’altrui sfera giuridica, cui si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a salvaguardare la tutela di interessi manifestati o esposti a pericolo in occasione del contatto sociale.
L’aver ricondotto la natura della mediazione ad un rapporto fattuale da “contatto sociale” consente di trarre importanti considerazioni sotto l’aspetto del regime di responsabilità dell’intermediario: per la Suprema Corte, ad esempio, essendo questi una figura professionale, la sua responsabilità andrebbe inquadrata, anziché sub specie aquiliana, nell’ambito di quella già tracciata dalla giurisprudenza con specifico riferimento alla figura del medico ed alle sue prestazioni prescindenti da un rapporto contrattuale, denominata appunto “da contatto sociale”; ciò in quanto “tale situazione è riscontrabile nei confronti dell’operatore di una professione sottoposta a specifici requisiti formali ed abilitativi, come nel caso di specie in cui è prevista l’iscrizione ad un apposito ruolo, ed a favore di quanti, utenti-consumatori, fanno particolare affidamento nella stessa per le sue caratteristiche (si pensi, ad esempio, alle c.d. agenzie immobiliari dalle particolari connotazioni professionali ed imprenditoriali)”.
Per i “contrattualisti”, del resto, è sempre stato pacifico che l’incarico potesse esplicarsi in un atto comunicativo espresso per facta concludentia, vale a dire nella semplice utilizzazione consapevole dell’attività del mediatore; in altre parole, c’è incarico anche quando si dimostri semplicemente che le parti hanno avuto consapevolezza dell’intermediazione, valorizzandola come tale.
Per costoro dunque, il consenso necessario per ritenere concluso il contratto di mediazione, ove non sia frutto di uno specifico incarico conferito al mediatore, può essere manifestato validamente anche in modo «tacito», come quando la parte si avvalga consapevolmente dell’opera del mediatore, e la consapevole utilizzazione, da parte degli interessati, dell’attività del mediatore equivarrebbe ad un contegno il cui significato sociale è, indipendentemente dalla effettiva volontà (interiore) delle parti, quello di un atto decisionale espressivo della volontà di conferire un incarico mediatorio.
Sicché, nel caso specifico in cui una parte usufruisca di una prestazione altrui, sarà comunque sempre necessario valutare se quel contegno è socialmente valutato come accettazione della prestazione.
Il «contratto di fatto» concluso mediante un contatto sociale, costituirebbe allora pur sempre un contratto per il quale è pur sempre necessario un consenso, anche se funzionalmente qualificato: «si tratta di un consenso alla (propria o altrui) prestazione, e non del consenso (negoziale) alla nascita della propria obbligazione», sicché, per l’insorgere del diritto alla provvigione, non è necessario il preventivo conferimento dell’incarico ma «la mera circostanza della valorizzazione consapevole dell’opera» del mediatore rispetto alla conclusione dell’affare.
Si può pertanto affermare che il diritto alla provvigione si basa sulla sussistenza dei seguenti presupposti: la conclusione dell’affare ed il nesso di causalità tra l’attività del mediatore e l’affare concluso; non è pertanto necessaria la presenza di un incarico, ma è sufficiente che l’opera del mediatore non venga rifiutata dal soggetto intermediato.
Con la mediazione, infatti, la legge riconosce ad un operatore professionale che svolge un’attività con la quale mette in contatto due o più parti che concludono un affare, il diritto ad un compenso che, gli usi, quantificano in una percentuale sul valore dell’operazione.
Non rispondendo il contratto di mediazione allo schema consensualistico e bilaterale degli altri tipi (come emerge peraltro dalla stessa analisi strutturale dell’art. 1754 c.c.) è la sua attuazione a produrre l’effetto di vincolare tanto il mediatore quanto il destinatario; quest’ultimo, tuttavia, ha sempre la possibilità di paralizzare gli effetti dell’esecuzione esprimendo il proprio dissenso all’attività svolta dal mediatore, prima del prodursi del risultato (salvo, naturalmente, nel caso in cui, all'atto della convenzione negoziale, sia stato concertato l'obbligo di corresponsione della provvigione, da parte del cliente, indipendentemente dalla conclusione dell'affare e per effetto della semplice acquisizione, da parte del mediatore, di un'offerta omogenea a quella indicatagli).
Caratteristica del rapporto di mediazione è infatti la facoltà di recesso senza alcuna responsabilità, che la dottrina e la giurisprudenza unanimemente riconoscono alle parti.
Pertanto si può ben affermare che «nella mediazione, l’attuazione equipara il silenzio delle parti a consenso; oppure, che l’attuazione conclude un contratto non consensuale, purché non intervenga una previa rinunzia (da parte del mediatore) o una prohibitio (da parte del cliente)».
2. Il nesso di causalità tra la conclusione dell’affare e l’attività del mediatore
Non qualsiasi attività di mediazione da diritto alla provvigione, ma solo quella legata da un nesso di causalità alla conclusione dell’affare.
E’ questo un principio assodato nella giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, la quale precisa altresì che è onere del mediatore che fa valere il diritto alla provvigione di provare sia di aver posto i contraenti in contatto tra loro, sia che in seguito a questo contatto ed eventualmente all'ulteriore opera di mediazione da lui svolta, è stata possibile la conclusione dell'affare.
Invero non è necessario che il ruolo sia esclusivo, niente impedendo che abbia più modesta portata e cioè che l'attività del mediatore si inserisca come semplice concausa nel processo formativo dell'affare medesimo.
Il riconoscimento del contributo causale minimo si fonda sull’art. 1755 c.c. che pone come requisito necessario affinché si maturi il diritto alla provvigione che il contratto si sia concluso «per effetto dell’intervento del mediatore».
Detta attività può intervenire inoltre in qualsiasi momento, all'inizio segnalando l'affare - sempre che la segnalazione costituisca il risultato utile di una ricerca fatta dal mediatore - oppure nel corso delle trattative, senza che sia quindi necessario che si protragga dall'inizio fino alla conclusione dell'affare, essendo infatti orientamento pacifico quello secondo cui è mediatore chi mette in relazione le parti interessate ad un affare, se questo è poi concluso, indipendentemente dalla partecipazione attiva del mediatore a tutte le fasi successive alla messa in contatto dei soggetti.
In altri termini, il mediatore ha diritto alla provvigione se la conclusione dell'affare si trova in diretto rapporto causale con la sua attività ed un tale rapporto ricorre anche quando il mediatore si limiti a porre in relazione le parti, purché tanto rappresenti l'antecedente necessario per pervenire alla conclusione dell'affare, sia pure attraverso fasi e vicende successive.
Quello che è indispensabile è che, in qualsiasi momento intervenga o con qualsiasi altro fattore causale concorra, l'attività del mediatore costituisca un antecedente necessario della conclusione dell'affare.
Pertanto se il mediatore vi ha messo lo “zampino”, per quando piccolo sia stato il suo contributo causale, se comunque si può sostenere che senza l’attività di messa in relazione svolta dal mediatore l’affare non si sarebbe realizzato, il diritto alla provvigione può dirsi sorto.
Al fine di stabilire se tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare sussista il nesso causale richiesto perché sorga il diritto alla provvigione, la giurisprudenza ritiene che occorra aver riguardo al principio della causalità adeguata o efficiente, in base al quale la conclusione dell’affare deve costituire l’effetto dell’intervento del mediatore, il che si verifica quando l’attività da questi svolta rientra nella serie di fattori ai quali sia ricollegabile la positiva conclusione delle trattative.
La valutazione circa la sussistenza del nesso di causalità, in quanto accertamento di fatto, è rimessa poi all'apprezzamento del giudice di merito ed è insindacabile in Cassazione, se adeguatamente motivata.
Ne consegue che non dà diritto a provvigione l'attività di mediazione che, secondo l'apprezzamento del giudice, non svolga alcun ruolo causale, neppure ridotto.
3. L’interruzione del nesso di causalità
a) le trattative interrotte e poi riprese
In base al principio suddetto si è escluso, ad esempio, il diritto alla provvigione - ritenendo inesistente il nesso causale tra l'attività di mediazione dell'agenzia e la vendita - in un caso in cui la ripresa delle trattative era intervenuta successivamente, per effetto di iniziative nuove, in nessun modo ricollegabili con le precedenti o da queste condizionate (nella fattispecie erano trascorsi più di due anni da quando, cadute le trattative intavolate con la mediazione dell'agenzia, ne furono intavolate altre su segnalazione di altro soggetto, le quali andarono a buon fine anche perché erano variate le condizioni dell'affare, ossia il prezzo e lo stato dell'immobile, né l’agenzia aveva provato che chi, a suo tempo, le aveva conferito l'incarico di trovare un acquirente, avesse effettivamente agito in rappresentanza del figlio il quale, a sua volta, due anni dopo aveva effettivamente concluso l’affare).
Va detto, comunque, che non esiste una linea netta di demarcazione tra trattative interrotte e poi riprese per effetto di iniziative nuove, non ricollegabili alle precedenti: spesso dipende molto dalla sensibilità del giudice (e dall’abilità dell’avvocato) dimostrare che si è in presenza di una nuova ed indipendente operazione di mediazione oppure che la successiva messa in relazione tra le parti non è altro che il completamento di un lavoro di intermediazione già realizzato (con la conseguenza che ciascun mediatore avrà diritto a una quota della provvigione, come previsto dall’art. 1758 c.c.).
In linea generale si è affermato che non costituiscono circostanze di per sé idonee ad interrompere il nesso di causalità né il fatto che la conclusione dell'affare sia avvenuta dopo la scadenza dell'incarico, né l'intervallo di tempo tra la conclusione del contratto e le prime trattative, né il successivo interessamento anche di altri soggetti; e nemmeno il fatto che «le parti sostituiscano altri a sé nella stipulazione conclusiva, sempre che vi sia continuità tra il soggetto che partecipa alle trattative e quello che ne prende il posto in sede di stipulazione negoziale e sempre che la conclusione dell'affare sia collegabile al contatto determinato tra le parti originarie».
b) la differenza di prezzo
A., futuro compratore, conosce B., futuro venditore, ma non gli si rivolge direttamente.
Affida la sua proposta ai Mediatori e chiede di trasmetterla a B..
B., cui i Mediatori si presentano come latori di quella specifica offerta, non rifiuta l'intermediazione dei Mediatori, ma si dice interessato alla vendita solo per un prezzo maggiore.
Dunque, è l'intervento dei Mediatori presso il B. come latore dell'offerta di A. a realizzare la messa in contatto dei due in rapporto all'affare.
L'affare in seguito si concluderà, ad un prezzo diverso.
Secondo la Cassazione è illogico negare che non abbia assunto ruolo causale la presentazione di quella proposta e non l'abbia assunto perché le parti, che già si conoscevano tra loro, hanno ancora potuto incontrarsi sul tema: quella conoscenza, infatti, non era stata prima sufficiente a stabilire un contatto tra le parti del futuro affare.
Ciò significa, da un punto di vista logico, che è stata la presentazione, da parte dei Mediatori, di un'offerta specifica che essi avevano consigliato a A. di fare, che ha consentito di stabilire il contatto, che è poi evoluto verso la conclusione dell'affare.
Come già detto, per aversi mediazione non è necessario un incarico, essendo sufficiente che l'opera del mediatore non sia rifiutata e questa opera consiste nel mettere in relazione due o più parti per la conclusione di un affare; sicché, quando il mediatore allega che l'affare concluso è frutto del suo intervento presso le parti, per negare che ne sia stata raggiunta la prova, non si deve dare rilievo ad elementi di contorno afferenti ai comportamenti delle parti, ma al dato oggettivo costituito da ciò, che l'affare concluso non si presenta riconducibile per le sue caratteristiche economiche a quello originariamente intermediato.
A conclusione analoga la Corte è pervenuta anche nel caso in cui il mediatore ha riferito l'offerta e dopo qualche mese l'affare si è concluso a prezzo ridotto.
c) la segnalazione dell’affare
Si è affermato che anche la semplice attività consistente nel reperimento e nell’indicazione dell’altro contraente, o nella segnalazione dell’affare, legittima il diritto alla provvigione, a condizione però che l’attività costituisca il risultato utile di una ricerca fatta dal mediatore e poi valorizzata dalle parti.
Dunque la “segnalazione dell’affare” in sé e per sé considerata non appare sufficiente a far sorgere il diritto alla provvigione se non è accompagnata da un’accertata effettiva rilevanza dell’opera del mediatore ai fini della conclusione del contratto.
A fronte, ad esempio, di un intervento volto a segnalare semplicemente l’affare ad altra persona, che poi personalmente provveda a procurare l’incontro tra i contraenti, si tende ad escludere il diritto alla provvigione in base alla considerazione che «chi compie la segnalazione non provvede a procurare l’avvicinamento dei futuri contraenti, sicché l’affare non è riconducibile alla notizia da lui fornita ma all’attività di chi la utilizza procurando tale incontro, il che implica che l’opera di intermediazione è svolta da quest’ultimo soggetto che ha diritto alla provvigione».
d) la sub-mediazione
In ipotesi di cd. submediazione (che ricorre allorché il mediatore incaricato fa svolgere ad altri – submediatore - in piena autonomia l’attività oggetto del suo incarico), si afferma invece l’interruzione del nesso di causalità, nel senso che i rapporti vanno tenuti rigorosamente distinti: nessun diritto «può essere ipotizzato tra il titolare del subdiritto e l’originario dante causa, restando interposta tra detti soggetti la figura di colui che ha costituito il subdiritto, salva l’eccezionale facoltà (prevista in tema di locazione ma estendibile a tutti i casi di subcontratto) attribuita al solo originario dante causa, di agire per la tutela dei suoi diritti originari direttamente nei confronti del titolare del sub diritto – senza che tuttavia quest’ultimo sia a sua volta legittimato ad agire nei confronti del primo dante causa anziché di colui che gli ha trasmesso il subdiritto». Ciò significa che mentre alla parte che in origine ha dato incarico al mediatore spetta - in applicazione analogica dell'art. 1595 c. c. - la facoltà di agire per la tutela dei suoi diritti anche nei confronti del submediatore, l'obbligo invece di corrispondere a quest’ultimo la provvigione resta a carico del solo mediatore che direttamente gli ha conferito l'incarico (esulando tale fattispecie dall’ipotesi prevista dall’art. 1758 c.c. che riguarda il caso diverso di più mediatori incaricati dalla medesima parte).
Pertanto, se da un lato il submediatore può chiedere il compenso non alle parti ma solamente al mediatore da cui ha ricevuto l’incarico, d’altro canto egli continua ad essere tenuto nei confronti delle parti anche alle obbligazioni di informazione, di comunicazione e di avviso derivanti dall'art. 1759 c.c., sempre che di tale norma sussistano le condizioni di applicabilità in relazione alle circostanze a lui note.
Va evidenziato, tuttavia, che tale argomentazione si basa sulla concezione “contrattualistica” della mediazione che, per ovvie ragioni, rimarrebbe priva di senso ove si intendesse la mediazione non come negozio giuridico, bensì come mera attività materiale del mediatore (la messa in relazione di due o più parti) da cui la legge fa scaturire il suo diritto alla provvigione (a condizione della conclusione dell’affare) nei confronti «di ciascuna delle parti» e solo «per effetto del suo intervento», “quale appunto conseguenziale alla sua neutralità ed imparzialità nel metterle in relazione”.
In tal caso, infatti, se è effettivamente il sub-mediatore a mettere in contatto le parti, nel senso che è a lui che si deve la «messa in relazione» delle medesime, significa che l’attività “giuridica in senso stretto”, da cui la legge fa sorgere l’obbligo di pagare la provvigione per i soggetti che poi concludono l’affare, è stata compiuta da lui e lui soltanto, mentre il primo mediatore incaricato altro non è che una figura assimilabile a chi ha semplicemente segnalato l’affare.
e) la consapevolezza dell’opera di mediazione
Si è già detto che il diritto alla provvigione non sorge qualora le parti, pur avendo concluso l'affare grazie all'attività del mediatore, non siano state in grado di conoscere ed abbiano ignorato incolpevolmente l'opera di intermediazione svolta: si ritiene cioè che il requisito della riconoscibilità dell’attività di mediazione svolta sia indispensabile non solo per il diritto alla provvigione, ma per l’esistenza stessa del rapporto di mediazione.
f) l’identità dell’affare: il leasing finanziario
A norma dell'art. 1755 c.c., l'affare che costituisce il diritto alla provvigione del mediatore è quello che dal mediatore è stato proposto alle parti sicché, nel caso che queste concludano successivamente un affare diverso da quello originariamente proposto dal mediatore, viene meno ogni nesso di causalità tra l'attività da quest'ultimo espletata e l'affare ed il conseguente obbligo delle parti di pagare la provvigione.
L’affare deve consistere in un atto di volontà giuridicamente efficace a vincolare le parti, in altre parole un accordo tra (almeno) due soggetti, idoneo ad abilitare ciascuna di esse ad agire per l’esecuzione del contratto o, in difetto, per il risarcimento del danno come ad esempio la conclusione di un contratto un preliminare.
Più specificamente, il termine «affare» è riferibile ad ogni operazione generatrice di obbligazioni e, cioè, ad ogni rapporto giuridico che rivesta carattere vincolante e che riceva tutela dall’ordinamento giuridico, il quale ne assicuri l’adempimento.
Insomma, anche se normalmente vi è coincidenza tra affare e contratto, tale coincidenza non deve ritenersi essenziale: l’affare va cioè inteso non solo come conclusione di un unico contratto (anche se normalmente è così che avviene) ma come qualsiasi operazione di natura economica che si risolva in un’utilità patrimoniale che dia luogo a conseguenze giuridiche: «la locuzione "affare", impiegata dalla norma, non serve a definire soltanto le operazioni di trasferimento di beni, ma include ogni operazione di contenuto economico che si risolve in una utilità di natura patrimoniale».
Tale conclusione ha consentito di ritenere giuridicamente possibile l’opera di un mediatore anche nella stipulazione di una pluralità di contratti tra loro collegati e diretti a realizzare un unico interesse e programma economico, restando in questo caso la mediazione unica, avendo ad oggetto pur sempre un unico «affare» e rimanendo obbligati al pagamento della provvigione i soggetti che hanno partecipato alla conclusione di detto affare.
Tuttavia, poiché il diritto alla provvigione da parte del mediatore consegue non alla conclusione del negozio giuridico, ma dell’affare come sopra inteso, la condizione perché sorga il diritto alla provvigione è l’identità dell’affare proposto con quello concluso, sicché, quando si debbono individuare i soggetti tenuti al pagamento della provvigione è necessario sempre risalire allo strumento giuridico utilizzato per il compimento dell'affare e guardare ai soggetti dell'atto giuridicamente rilevante nel quale è contenuta l'operazione economica frutto della mediazione.
Tale distinzione tra parti in senso economico e parti in senso giuridico dell'affare ha, naturalmente, il solo scopo di consentire l’identificazione dei soggetti tenuti al pagamento della provvigione.
Da quanto detto si ricava che non è sempre facile stabilire se sussista in concreto una identità tra affare proposto e affare concluso.
La stessa giurisprudenza, in ordine al criterio da adottare per formulare il giudizio di identità, pare oscillante, richiedendo a volte che la fattispecie oggetto del contratto intermediato venga attuata negli stessi termini previsti e voluti dalle parti al momento del conferimento dell’incarico, altre volte sostenendo che, più che alla struttura giuridico–formale dell’affare, si debba guardare all’attitudine di questo a soddisfare l’interesse economico avuto di mira dalle parti.
Questa considerazione appare evidente soprattutto in relazione alle pronunce giurisprudenziali che si sono occupate di trasferimenti immobiliari realizzati con l’intervento di un mediatore attraverso il ricorso alla figura della locazione finanziaria (cd. leasing).
Come è noto, questa figura contrattuale prevede la partecipazione di tre soggetti: il concedente finanziatore (che esercita l’attività di leasing), il fornitore, e l’utilizzatore finale del bene. Quest’ultimo (di solito un imprenditore), interessato all’utilità di un determinato bene, ma al contempo intenzionato a non sostenere gli oneri economici e fiscali di un acquisto, si rivolge al concedente finanziatore conferendogli l’incarico di finanziare e procedere all’acquisto da terzi di beni di qualsiasi specie, mobili o immobili, per concederli in uso ad un soggetto (utilizzatore) per un periodo di tempo prefissato e contro il pagamento di un canone periodico. Il concedente effettua quindi l’acquisto e, mantenendo la titolarità del diritto di proprietà sul bene acquistato, ne cede il godimento all’utilizzatore in cambio di un corrispettivo periodico prestabilito (c.d. locazione finanziaria). Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha la facoltà di scegliere tra il riscatto del bene mediante il pagamento di un prezzo finale, la proroga della locazione e la restituzione del bene al concedente finanziatore.
Può pertanto accadere che, dopo che il mediatore abbia messo in relazione due parti interessate rispettivamente all’acquisto ed alla vendita di un immobile, l'immobile venga poi definitivamente acquistato da un terzo soggetto che lo concede in leasing al soggetto originariamente interessato all’acquisto, il quale ne risulta pertanto l'utilizzatore.
Ebbene, nei casi in cui le parti non concludano il contratto di vendita per il quale il mediatore le ha messe in relazione, ma l’una alieni il bene al terzo e l’altra stipuli con l’acquirente convenzione di leasing, la Suprema Corte, pur qualificando tale contratto come figura di collegamento negoziale, ha ritenuto l’affare soggettivamente ed oggettivamente diverso, a nulla rilevando che la convenzione si atteggi come operazione economica complessiva e svolga funzione traslativa subordinatamente all’esercizio del riscatto: diversi sono i tipi contrattuali utilizzati, diverse sono le parti protagoniste del leasing e della compravendita; per cui l’affare concluso risulta soggettivamente e oggettivamente diverso rispetto a quello oggetto della mediazione, non andata a buon fine.
Altre volte, invece, richiamandosi al principio sopra esposto secondo cui la maturazione del diritto alla provvigione non deriva tanto dalla conclusione del contratto, ma "dall'affare" (termine che comprende qualsiasi operazione di contenuto economico che si risolva, a prescindere dalla forma negoziale adoperata, in un'utilità di carattere patrimoniale in relazione all'obiettivo prefisso dalle parti) la Cassazione ha affermato che: «la conclusione di una compravendita tramite locazione finanziaria può considerarsi, in relazione agli obiettivi perseguiti dalle parti, affare identico alla compravendita stessa ai fini della maturazione del diritto alla provvigione in capo al mediatore».
Giova rilevare, peraltro, che da tempo la giurisprudenza ha assimilato alla vendita quantomeno la figura del «leasing traslativo» (che ricorre allorquando il canone sia stato pattuito come corresponsione anticipata di parte del prezzo di acquisto previsto alla scadenza del contratto e la concessione in godimento assume funzione strumentale a detto acquisto, in modo che l’insieme...

... continua
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